Di Chiara Buongiovanni, SIA
La mancata maturità nella relazione tra finanza a impatto e terzo settore italiano sembra avere qualcosa di paradossale. È quanto confermato nei Cantieri Viceversa del luglio 2024, i cui risultati e piano di azione conseguente saranno presentati a Roma, il 6 novembre p.v. Anche per i più profani, la domanda – come direbbe qualcuno – sorge spontanea: perché risorse finanziarie orientate intenzionalmente alla generazione di impatti sociali positivi fanno ancora fatica a incontrare soggetti per cui la generazione di impatti sociali positivi è ragione di esistere e le risorse finanziare, ad oggi, pressante necessità? Ne parliamo con Massimo Giusti, Presidente e Amministratore di Sefea Impact SGR, Società di Gestione del Risparmio esclusivamente focalizzata su impact investing, nonché Presidente del Forum della Finanza Sostenibile, membro del Consiglio direttivo di Social Impact Agenda per l’Italia, Segretario Generale della Fondazione O.N.C. e fondatore di un’avviatissima cooperativa sociale nel territorio di Maranello. Insomma, chi meglio di lui?
È la finanza a essere complicata per il terzo settore o viceversa? La domanda come spesso accade è mal posta. La relazione è complicata perché la realtà è complessa, il contesto socio-economico in cui il terzo settore e la finanza operano è in profonda trasformazione, e la chiave è saper stare in questa complessità, pur rimanendo fedeli ai propri valori e alla propria mission, sapendo usare le opportune leve per
espandere la portata del cambiamento a cui si aspira.
La chiave è negli ETS e fa rima con investimento
Per Massimo Giusti, un metadato interessante viene proprio dalla lettura della partecipazione ai Cantieri Viceversa di quest’anno da parte del terzo settore, ancora piuttosto parcellizzata. “Quello che osservo è che, mentre il mondo della finanza si è strutturato per affrontare queste grandi trasformazioni di contesto perché, oltre all’innegabile spinta regolatoria, vede un potenziale mercato, il mondo del c.d. terzo settore fa ancora fatica a investire per fare quello che è necessario, ovvero diventare soggetto gestore di progetti complessi e non semplice erogatore di un servizio. Anche la cooperazione sociale, che è la punta più avanzata nel mondo imprenditoriale del terzo settore, è poco strutturata e c’è ancora troppa poca gente che si occupa di finanza. Se anche le centrali cooperative offrono servizi di questo tipo, dando alle cooperative già il servizio finale, io ritengo che questo non basti: sono le cooperative che dovrebbero investire di più in infrastruttura sociale, in chiave economico-finanziaria”. “Questo – sottolinea – è richiesto anche dalla riforma del terzo settore, che chiede agli ETS (enti del terzo settore, ndr) di fare co-progettazione con gli enti pubblici. La domanda per ogni ETS è la stessa: come ti stai infrastrutturando per farlo? Non c’è altra strada se non formare persone che siano in grado di dialogare con chi offre servizi finanziari, in un contesto di progettazione complessa e non più lineare”.
La chiave è negli ETS, dunque, e fa rima con investimento. “Sono gli ETS, in primis imprese sociali e grandi associazioni a doversi dotare di queste figure e, inutile girarsi intorno, dovrebbero investire in questa direzione”, precisa Giusti, pur riconoscendo la fatica nell’adottare un simile approccio in un contesto in cui la marginalità è sempre ridotta e il lavoro abbondante. “Si tratta di saper leggere le priorità: capitale
umano e infrastrutturazione finanziaria decisamente lo sono”.
Finanza a impatto e ETS: tra paradosso ed effetto boomerang?
Se in merito al rapporto tra finanza a impatto e terzo settore c’è chi parla di una sorta di paradosso dell’impatto, per cui i due mondi pur se “vocati” all’incontro sembrano non incontrarsi, c’è anche chi fa emergere una posizione più radicale e di segno sostanzialmente opposto, identificando nelle logiche della finanza a impatto un rischio boomerang che potrebbe intaccare l’essenza stessa del terzo settore. Tali
remore, in parte emerse anche in sede di Cantieri Viceversa e sviscerate nella riflessione estiva di Tiziano Blasi (Vita, luglio 20204) sono riassumibili come segue: perseguendo la massimizzazione dell’impatto positivo generato come criterio stesso di remunerazione, l’approccio della finanza a impatto rischia di spingere sulle progettualità per loro natura più performanti e promettenti, lasciando disattese le esigenze e i bisogni più complessi, più marginali e più difficili da risolversi, che sono però per sua natura il campo di azione privilegiato del terzo settore.
Abbiamo chiesto a Massimo Giusti, che con Sefea ha appena lanciato un fondo di investimento dedicato alla cooperazione sociale, quanto ci sia di fondato in un approccio, piuttosto prudenziale, di questo tipo. “Il punto – ci spiega – è una mis-concezione di cosa sia finanza a impatto e un fattore di presunzione latente per cui ciò che il terzo settore fa è buono per definizione. Credo, invece, che nel terzo settore e nella finanza
a impatto ci sia tanta volontà che deve trovare strumenti e opportunità per farsi strada tra i due mondi”.
AAA metriche di impatto cercasi nel terzo settore, a prescindere dalla finanza
Per Giusti, la chiave è in una necessaria e strategica evoluzione del terzo settore, soprattutto in termini di autopercezione e autovalutazione. “Occorre uscire dalla logica per cui un’organizzazione che si occupa di soggetti marginali, ad esempio i senzatetto, fa bene a prescindere. Bisogna che il terzo settore acquisisca la consapevolezza per cui se si vuole cambiare davvero la vita dei soggetti con cui e per cui si lavora, e non solo offrire un servizio sporadico ed emergenziale, bisogna dotarsi di metriche di impatto che accompagnino l’intera gestione dell’attività e che rispondano in prima battuta a domande del tipo: che servizi offro, che livello di servizio voglio offrire e fin dove posso misurarne gli impatti. Con un approccio di questo tipo, si va poi a dialogare con la finanza”.
La chiave di volta sembra essere il non considerare le metriche di impatto come metriche finali, di rendicontazione, perché questo potrebbe effettivamente distorcere la missione stessa dell’organizzazione di terzo settore. Si tratta piuttosto di portare l’impatto dentro il disegno del servizio e delle attività.
“È un po’ quello che abbiamo già visto succedere con i sistemi di qualità”, conferma Giusti. “Finché lo si considera un bollino per partecipare a bandi pubblici, è chiaramente un orpello che rallenta, appesantisce e rischia di snaturare, mentre la finalità è di migliorare i servizi che si offrono. Parallelamente se vivo l’impatto come un numerino finale, distorco la questione che finisce per diventare un “problema” che si affida a un singolo ufficio nell’organizzazione. Al contrario, se il sistema di qualità come anche la valutazione di impatto investe, come deve, tutte le funzioni dell’impresa sociale come della cooperativa o del soggetto del terzo settore, si arriva a comprendere come anche la finanza a impatto può contribuire a migliorarne le attività”.
Il finanziamento per l’impatto (e non viceversa) chiede un terzo settore maturo
Insomma, bisogna lavorare alacremente per superare il fallace massaggio per cui per essere finanziati occorre fare impatto, perché è esattamente il contrario. Massimo Giusti riporta i passaggi nella giusta cronologia, proprio a partire dalla sua prospettiva di investitore a impatto e profondo conoscitore del terzo settore. “L’ente del terzo settore fa attività di impatto e io, che voglio fare finanza a impatto, lo vado a cercare perché voglio investire in quello che fa”. E aggiunge una nota sull’interpretazione della funzione stessa del c.d. “terzo settore” nella nostra società. “Il terzo settore non è l’ultima spiaggia. Non è il settore che si occupa esclusivamente dei casi disperati, di cui non si occuperebbe più nessuno. Proprio alla luce di una maggiore maturità anche finanziaria, il terzo settore deve concentrarsi anche su attività meno marginali perché sono quelle che danno più possibilità di avere reddito aggiuntivo per occuparsi di quelle che vengono considerate da politica e società problematiche di più difficile e non certa soluzione. Il punto non è mai contare solo i successi perfetti ma, per il terzo settore in particolare, si tratta di contare quello che si innesca e quello che si previene. Nell’esempio che sempre si discute, ovvero il reinserimento sociale dei detenuti, non contiamo solo quanti di questi non hanno recidive, ma anche quanti non si sono tolti la vita, perché l’impatto è sempre in contesto, è incrementale, non è mai una casellina e non è mai una spunta singola. Ma per lavorare sugli impatti devi saperli leggere, misurare e gestire per massimizzarli, a prescindere dal finanziamento. Il finanziamento arriva per aiutarti a fare quello che tu già fai, altrimenti il rischio è effettivamente che finisca per snaturarti”.
Equity ed exit per il terzo settore, si può fare anche questo
Anche in tema equity, punto ancora poco dibattuto e un po’ temuto, per Massimo Giusti il problema è nella comprensione delle cose. Il fulcro non sono i soldi. Il punto è ciò che l’organizzazione fa. “In quanto investitore – spiega – a me non interessa dare i soldi, ma fare un pezzo di strada insieme. Un investitore in una cooperativa sociale non ha come scopo una exit con moltiplicatore degli interessi, ma considera che nella remunerazione dell’investimento c’è un valore necessario, aggiuntivo che rimane nella cooperativa”. Il punto per essere ancora più pratici è che “per remunerare l’investitore la cooperativa deve crescere, nel crescere aumenta gli impatti della sua attività. Questo è in ultima istanza il senso dell’equity nel terzo settore, che viene invece ancora percepito come un rischio di ingerenza e di sfruttamento. Come investitore a impatto non voglio sfruttare le tue idee ma sostenere il raggiungimento degli obiettivi che ci diamo, insieme, per migliorare questo o quel servizio. Quando sei cresciuto e sei capace di camminare da solo, è finito il mio compito e faccio exit”.
Nel terzo settore l’equity è un po’ un cammino da fare insieme.
Così lo definisce il presidente di Sefea Impact che, per fugare ogni dubbio, spiega come per definizione con una exit nel terzo settore, a differenza dell’exit in qualsiasi altra forma di impresa commerciale, l’investitore porti a casa i soldi che ha “prestato”, ma non il valore complessivo maturato. Cioè la exit non avviene per dei moltiplicatori, ma al valore nominale, perché questo è nella natura del contesto in cui sta facendo l’investimento.
… e la finanza?
“Amo parlare della questione dal punto di vista del terzo settore – ammette Giusti – perché conosco la natura di entrambi i mondi e la finanza, nel bene e nel male, va dove ci sono dei ritorni”. La finanza ha un potere, concorda, che è quello di orientare e anche di snaturare, inutile nasconderselo. Per questo, sottolinea “è importantissimo che le attività svolte dai soggetti del terzo settore abbiano la prospettiva dell’impatto e della misurazione a prescindere dal fatto che esiste la finanza, proprio a garanzia del rischio (reale) di operazioni di washing violento”.
Costruire, a partire da strumenti e relazioni
Parlare con Massimo Giusti restituisce la consapevolezza, realistica e visionaria al tempo stesso, che tutto subito non si può avere, ma che tuttavia si può fare. Dunque, da cosa cominciare, su cosa puntare? “Il primo passo per me è credere negli strumenti”, conclude, specificando che è un passo che coinvolge entrambe le parti. “Se la finanza crea gli strumenti, si avvia un dialogo e si arriva a realizzare nel tempo un incontro tra offerta e domanda. Questo incontro avviene nella quotidianità. E per creare la quotidianità e far conoscere, per mettere insieme bisogna creare degli strumenti che agiscono nel concreto. Questa è la scommessa che abbiamo fatto con il Fondo SI, dove oltre la metà dei nostri interventi erano rivolti ai soggetti della cooperazione sociale, mentre proprio ora stiamo lanciando un fondo dedicato a loro”.
Dobbiamo lavorare nel terreno delle “cose che si possono fare”, per cambiare le cose da cambiare. E sappiamo che si può fare.
Massimo Giusti
Da sempre cooperatore sociale esperto di Terzo Settore, Finanza Sostenibile e Settore Immobiliare, negli anni Massimo Giusti ha dato vita a varie cooperative sociali e consorzi e ha ricoperto posizioni apicali in realtà quali Confcooperative, Federsolidarietà, Forum del Terzo Settore, nonché l’Agenzia Nazionale per le Onlus. Ha ricoperto posizioni di massimo livello nel settore bancario italiano e, per oltre 15 anni, anche nel sistema delle fondazioni di origine bancaria e dell’ACRI. Ha ricoperto, e tuttora ricopre, ruoli apicali in Fondazioni erogative private ed ecclesiastiche, attività che gli ha permesso di diventare Decorato Pontificio; è inoltre decorato dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Fino al 2020, ha ricoperto il ruolo di Consigliere Indipendente e non Esecutivo per il Gruppo Hera spa, ricoprendo tra l’altro il ruolo di Presidente del Comitato Etico e di Sostenibilità, promuovendo i temi della sostenibilità all’interno del Gruppo. Si occupa anche di Fondi Pensione: è Consigliere del Fondo Pensione “PEGASO”, commissione Finanza e referente tematiche ESG, e fino a maggio 2021 Presidente del Fondo Pensione “ARCO”. Attualmente, oltre ad essere Presidente ed Amministratore di Sefea Impact SGR, ricopre la carica di Segretario Generale della Fondazione O.N.C., Organismo di controllo sui centri servizi del volontariato in Italia.
𝐒𝐈𝐀 𝟐𝟎𝟑𝟎 è il 𝐛𝐥𝐨𝐠 di Social Impact Agenda per l’Italia sulla 𝐅𝐢𝐧𝐚𝐧𝐳𝐚 𝐚 𝐈𝐦𝐩𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐠𝐥𝐢 𝐒𝐃𝐆𝐬.
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